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Dialogo tra la natura e un'avvocata

25 settembre 2023

Presidenza AIAF ,

“Sto organizzando un viaggio sul Kilimanjaro, Verresti con noi”?

A dicembre 2022 ho risposto immediatamente di sì, a scatola chiusa. Sapevo solo che si trattava della montagna più alta del continente africano e che sarei dovuta andare in Tanzania.

Una sfida? No. Cosa devo ancora dimostrare alla mia età? Niente. Quindi, cosa mi ha spinta a dire di sì e ad unirmi ad altri due per fare trekking sul Kili? Non ho una risposta, so solo che, in quest’ultimo anno, ho fatto tante cose che non ho fatto quando avevo vent’anni o trenta.

A novembre 2022, ho fatto, per la seconda volta – la prima nel 2019, l’anno prima del Covid – la maratona di New York e l’ho conclusa. Non chiedetemi in quanto tempo: ad una signora non si chiede l’età e neppure quanto ci hai messo a fare la maratona!

A marzo 2023, quando con gli altri due compagni di viaggio sul Kili (“el triplete del Kili” ci siamo chiamati) ho iniziato l’allenamento, ho fatto per la prima volta sci alpinismo. Una fatica non da poco, ma ancora non sapevo cosa mi aspettasse in Tanzania!

Abbiamo continuato ad allenarci tra maggio e fine luglio sulle nostre meravigliose Dolomiti, con percorsi impegnativi, dislivelli importanti (1.500mt), camminate di sette-otto ore al giorno. Ma sempre affrontando altitudini sotto i 3.000 metri.

Forti della nostra preparazione atletica e delle nostre attrezzature (l’abbigliamento tecnico è fondamentale), abbiamo iniziato la nostra avventura partendo da Arusha. El triplete del Kili, con le due guide, Abraham e Duncan, e tredici portatori, ragazzi instancabili che per otto giorni hanno portato i nostri duffle bag, le tende, le sedie e il tavolo dove mangiavamo, il cibo, l’acqua e tutto il necessario per il camp.

La guida mi chiede, in inglese, se mi va bene essere chiamata “mama”. No way! Al massimo, sister, chiamatemi sister. E così sono diventata per tutti “dada”, sorella in swahili. Kaka vuol dire fratello, ma nessuno dei miei due compagni di viaggio lo ha scelto come nickname...

Partiamo da Machame Gate, dopo aver mangiato gli spaghetti cucinati da Zebi, il nostro cuoco. Il sugo di verdure e carne è la versione tanzaniana del ragù alla bolognese, forse in onore di uno dei miei compagni di viaggio, Cristiano, ingegnere di Bologna. Marco (markmela), l’organizzatore del viaggio, invece è di Milano, come me.

I primi 11 chilometri sono nella foresta fluviale, una vegetazione spettacolare, anche se c’è un caldo umido che mi sfianca. Arriviamo al Mechwa Camp, io finita e infreddolita. Quando tramonta il sole, c’è un bel freschino. Guanti e un bel tè bollente. Zebi ci ha preparato tante cose buone per cena, in quantità eccessiva. Certamente non abbiamo mai sofferto la fame!

Tenda, materassino, sacco a pelo, un freddo che non sto a dirvi. In quei momenti, dovendo peraltro dormire in due in tenda, mi sono di nuovo chiesta “ma chi me l’ha fatto fare”? Poi ti infili la giacca a vento, metti i guanti, infili gli scarponi ed esci dalla tenda, guardi in alto e trovi la risposta: sopra di te hai una stellata meravigliosa, indescrivibile, indimenticabile! Anche per vedere questo cielo sono venuta sul Kilimanjaro.

Il risveglio. Guardi fuori e vedi un panorama mozzafiato, ci sono dei colori che non riesci a descrivere e che neppure il migliore obiettivo del Samsung o dell’iPhone potrebbe rendere nella loro interezza.

Il secondo giorno per me è stato il più faticoso, non solo mi sono chiesta, di nuovo, chi me lo avesse fatto fare, ma ho pensato che non ce l’avrei fatta a proseguire, che avevo chiesto troppo al mio fisico, che quando si ha “una certa” bisogna arrendersi e andare in vacanza al mare, sdraiati su un lettino, sotto l’ombrellone. Altro che Kili!

E poi, all’improvviso, mentre pensi ad una doccia calda e ad una comoda camera d’albergo, appare “lui”, il Kilimanjaro, in tuta la sua maestosità. È imponente, affascinante, speriamo di venirti a trovare in cima, gli diciamo mentre fotografiamo lui e, di fronte, il monte Meru.

Siamo allo Shira Camp, a 3850 metri. Alle 17.30 saliamo di circa 500 metri per abituarci all’altitudine e per vedere un tramonto spaziale! C’è un momento in cui il Kili è rosso, illuminato dal sole. Quando dico che è stato un viaggio indimenticabile mi riferisco a queste immagini, a questi tramonti, alle rocce, alle stellate, ai terreni ogni giorno diversi che percorrevamo.

Alla sera, rientrati al camp per cenare e poi crollare esausti in tenda, abbiamo visto le luci della cittadina di Moshi, sotto di noi e sopra di noi un quadro senza cornice su cui qualcuno, molto abile, aveva disegnato una miriade di stelle che ci tengono compagnia mentre ci ritiriamo nelle nostre tende. So bene, anche per motivi legati all’attività professionale, quanto sia difficile la convivenza tra due persone, anche in una casa molto grande, ma, credetemi, in una tenda dove a malapena ci stanno due materassini e dove devi fare entrare il tuo – e il suo - duffle, il tuo – e il suo - zaino, quattro - otto borracce da un litro ciascuna, il tuo – e il suo - sacco a pelo, le scarpe da trekking (se le lasci fuori, al mattino è come infilare il piede nel freezer) di tuti e due, la convivenza è una dura prova di self control. Che a volte perdi… (“Marco, ora ho capito perché non ti sei mai sposato! Non saresti mai stato un marito perché sei una suocera”!!!). Scherzo, in realtà sia Marco sia Cri, un vero gentiluomo, sono stati ottimi compagni di viaggio.

Sì, stellata superba, ma tira un vento.

Ci dobbiamo abituare perché domani mattina partiremo per Lava Tower. E lassù altro che vento!

La lava tower è degna del Kili. Vento e polvere ci avvolgono, tutto si mischia con il nostro pranzo al sacco. Abbiamo terra ovunque. Tanto poi ci facciamo una bella doccia… Sì, certo, ma sarà tra sei giorni. Cappello, capelli, occhiali, occhi, paracollo, collo, guanti, mani, uno strato di polvere e terra che il vento porta via da una parte ma riporta dall’altra, non c’è scampo. Questo non ci impedisce di godere, tra una folata e l’altra di godere di un panorama spettacolare.

Iniziamo una discesa faticosissima. La salita ti ammazza e ti fa chiedere “perché sono qui” (per non essere monotona e continuare a dire “chi me l’ha fatto fare”?) e non vedi l’ora di arrivare in cima, ma la discesa è pure peggio! Questo anche sulle Dolomiti. Per fortuna hanno inventato le racchette, e sono come il cappello di lana, se lo metti non lo togli più fino a maggio. Sante racchette, mi hanno salvato ginocchia e schiena.

Attraversiamo un ponticello di legno; Cri, il nostro ingegnere che nella vita si occupa di verificare la “salute “dei ponti, ci invita a muoversi velocemente perché non appare affatto stabile. Via di corsa!

Finalmente ci appare da lontano, come un miraggio, Barranco Camp. L’effetto è proprio quello di un miraggio perché vediamo le tende, ma non si arriva MAI!

L’ennesima cena pantagruelica e alle 20.30, dopo il solito inebriante spettacolo di stelle, andiamo a dormire, ancora inconsapevoli di cosa ci sarebbe toccato il giorno dopo.

Mi alzo alle 6.30 dopo un sonno ristoratore, nove ore di fila. Alla domanda, ormai logora, “chi me l’ha fatto fare” la risposta è nelle ore filate di dormita.

Il Kili è maestoso, ci aspetta.

Ma prima di lui c’è il famigerato Barranco Wall. Navigando in internet ho letto frasi del tipo Barranco Wall – Death Wall?

Vero, internet è pericoloso. E comunque, qui non c’è connessione… Per fortuna!

Inizio a camminare, intorno a me un paesaggio da scoprire, piante strane, curiose, meritano foto ma siamo ancora lontani e voglio avvicinarmi per vederle meglio. Il cammino, all’inizio, non è per nulla faticoso e questo mi rassicura.

Alzo lo sguardo e vedo tante macchie di colore, rosso, arancio, verde fluo attaccate alla parete. Ma cosa sono? Le giacche a vento di quelli partiti prima di noi! Sono appiccicate alla parete e si muovono molto lentamente. E io devo arrivare là??? Ormai non mi faccio più nessuna domanda, anche perché temo la risposta: sei una pazza e non ci dovevi venire qua.

“Pole pole” iniziamo a salire. Il nostro mitico chef Zebi si offre di portare il mio zaino. Glielo cedo immediatamente e mi sembra di volare camminando sulle racchette. Ci sono punti piuttosto difficili ma, non so come, li supero, senza neanche troppa fatica. E mentre salgo, continuo a sentire intorno a me le guide e i porter che dicono “ok dada, good job”. Credo di averli stupiti, non si sarebbero mai aspettati che una “giovane” come me potesse affrontare le fatiche del Barranco Wall. Penso di avere stupito anche i miei compagni di viaggio, molto proud of me.

Siamo a 4200 metri e ci aspetta ancora un long way per arrivare al Karanga Camp, a 3900.

Finalmente arriviamo al camp e ci abbuffiamo della qualunque: pizza, uovo, pollo, verdure, anguria, come se non ci fosse un domani!

Il 26 agosto iniziamo subito con una salita molto ma molto challenging.

Sto per morire.

Mi riprendo ma si sale, si sale… si sale da maledetto. Duncan, la guida, mi aiuta come sempre, ma oggi ho di nuovo lo zaino con quasi quattro litri d’acqua.

Prima della mia morte, in realtà, arriviamo al BBC – Barafu Base Camp, 4630 metri.

Sto per cedere ma poi, pole pole, arrivo anch’io al camp, dove incontriamo turisti newyorkesi, inglesi e tedeschi e ci complimentiamo a vicenda per l’impresa – perché è stata davvero tale.

Sono le dieci di sera, “mangia mangia” ci dice Alphonse, nostro aiutante, che in tutti questi giorni ci ha portato le colazioni, i pranzi e le cene luculliane. Alle ventitré e trenta si parte.

Iniziamo a salire ed è subito tostissimo. Nel buio pesto vedo davanti a me una sfilza di lucine, non sono stelle e non è neanche l’effetto dell’altitudine. Sono le luci delle pile che tutti noi abbiamo sulla fronte per vedere dove mettiamo i piedi.

Potete immaginare il freddo? NO. Qualunque cosa vi venga in mente, sappiate che là è più freddo.

Per fortuna, l’abbigliamento da noi scelto si è rivelato adeguato a combattere temperature così rigide. Mi piace sottolineare che, sia per l’abbigliamento sia per le scarpe da trekking, abbiamo scelto prodotti tecnici di produzione italiana.

Credo che il meccanismo della rimozione, tanto caro agli psicologi, mi abbia – oggi, però – fatto dimenticare la fatica enorme che mi costava ogni metro, ogni passo, una salita che non finiva mai, dove sentivo altri “malcapitati” intorno a me che dicevano “vorrei essere in qualsiasi altro posto piuttosto che qui” oppure altre voci che chiedevano di essere riportate al campo.

Posso descrivere solo adesso le fortissime emozioni provate quando il cielo ha cominciato a rischiarare e poi è arrivata l’alba. Si, perché arrivata lassù non riuscivo neanche a parlare e, quindi, non potevo trasmettere agli altri le mie emozioni; ma, del resto, erano le stesse che provavano loro.

Anche in questa salita ripidissima, faticosa, infinita sono stata esonerata dal portarmi lo zaino, ma in realtà era come se avessi sopra di me un peso di duecento chili che mi impediva di proseguire. Non so come, credetemi, ma ce l’ho fatta: sono arrivata a 5700 metri! E con grande orgoglio ho tirato fuori dallo zaino il logo del Consiglio Nazionale Forense con il tricolore e la scritta ITALIA.

Ho utilizzato le ultime forze per esultare, sorridere e mettermi in posa per le foto. Perché un momento così non può rimanere scolpito solo nella mia memoria, ma lo voglio sempre con me… anche nella “memoria” del mio telefono.

Congratulations , c’è scritto… E in effetti, sì, ce l’abbiamo fatta, siamo stati bravi.

E lasciatemi dire che anche il desiderio di portare il simbolo del Consiglio Nazionale Forense, dell’Ordine degli Avvocati di Milano cui sono iscritta e di AIAF, l’Associazione che ho il privilegio di presiedere in vetta mi ha certamente aiutata nell’ascesa!

Lo rifarei?

… Sì.

Ah, a proposito, rifaccio la maratona di New York!

Il racconto del viaggio sul Kilimanjaro dell'avv. Cinzia Calabrese, Presidente di AIAF.