Con un recente provvedimento la Corte di Cassazione torna a far luce sulla corretta funzione compensativa dell’assegno di divorzio.
Tale funzione compensativa dell'assegno di divorzio non è volta a retribuire ex post il coniuge per l'attività endofamiliare svolta durante la vita coniugale, ma a compensarlo in presenza di una significativa sproporzione economica rispetto all'altro coniuge, manifestatasi dopo lo scioglimento del vincolo, che non si sarebbe verificata se il richiedente non avesse, per una scelta condivisa, sacrificato concrete aspettative professionali e reddituali per dedicarsi prevalentemente all'attività domestica .
Lo ha ribadito la Corte di Cassazione, mediante ordinanza n. 9512/2023. Il provvedimento in questione è stato depositato lo scorso 6 aprile.
Il giudice di merito, per parte sua, è tenuto a dare conto, con adeguata motivazione, del nesso di causalità tra le scelte di conduzione della vita familiare e la sproporzione economica esistente al momento dello scioglimento del matrimonio, verificando se quella sproporzione sia determinata direttamente dalla decisione, condivisa, di rinunciare alla o sacrificare in parte l’attività lavorativa all'esterno della famiglia o, piuttosto, da fattori pregressi e indipendenti, in virtù dei quali non potrà ravvisarsi alcun nesso causale tra la sproporzione reddituale e il venir meno del vincolo matrimoniale.
La Suprema Corte, nella vicenda esaminata, viene concretamente chiamata a pronunciarsi sulla sentenza della Corte di Appello di Lecce che aveva evidenziato lo squilibrio economico-reddituale tra gli ex coniugi e la finalità anche compensativa dell'assegno divorzile, affronta nuovamente il tema dei presupposti per la concessione dell'assegno di divorzio di cui all'art. 5 della L. n. 898 del 1970.
I giudici di piazza Cavour chiariscono che laddove il patrimonio dell'ex coniuge richiedente sia stato formato, durante il matrimonio, con l'apporto prevalente dei beni dell'altro, si deve ritenere che sia già stato riconosciuto il ruolo endofamiliare svolto dal richiedente e sia stato già compensato l'eventuale sacrificio delle aspettative professionali, oltre che realizzata, con tali attribuzioni, l'esigenza perequativa: in siffatte circostanze non è dovuto l'assegno di divorzio.
Peraltro, si legge nella conclusione del provvedimento, nella valutazione delle condizioni reddituali e patrimoniali degli ex coniugi, il giudice è tenuto a valutare se e in che misura l'esigenza di riequilibrio delle condizioni degli stessi non sia già soddisfatta dal regime patrimoniale prescelto, giacché, se i coniugi abbiano optato per la comunione, ciò potrà aver determinato un incremento del patrimonio del coniuge richiedente, tale da escludere o ridurre la detta esigenza.
Secondo la Suprema Corte, la Corte territoriale, nella fattispecie, non si è confrontata con il principio sopra precisato, né ha adeguatamente indagato sulle modalità di formazione del patrimonio (mobiliare e immobiliare) della richiedente, limitandosi, piuttosto, a valutare le condizioni economiche del coniuge onerato con astrazioni argomentative, volte a valorizzare voci di entrata apparenti o sminuire voci di spese esistenti sulla base di considerazioni apodittiche.