In tema di affidamento dei figli nati fuori dal matrimonio, alla regola dell’affidamento condiviso può derogarsi solo ove la sua applicazione risulti pregiudizievole per l’interesse del minore con la duplice conseguenza che l’eventuale pronuncia di affidamento esclusivo dovrà essere sorretta da una motivazione non solo più in positivo sulla idoneità del genitore affidatario, ma anche in negativo sulla inidoneità educativa ovvero manifesta carenza dell’altro genitore.
È quanto statuito dalla Corte di Cassazione, nella recente ordinanza n. 21425/2022, depositata lo scorso 6 luglio.
Un rapido excursus dei fatti appare necessario per ricostruire correttamente il percorso logico-giuridico intrapreso dai Giudici di Piazza Cavour.
Il Tribunale di primo grado affidava in maniera esclusiva al padre, con collocazione prevalente presso il medesimo nell'abitazione già adibita a residenza familiare, le due figlie minori, nate fuori dal matrimonio. Avverso tale provvedimento veniva proposto reclamo dalla madre, presso la Corte di Appello competente, la quale rigettava il gravame confermando il provvedimento reso dal giudice di primo grado e incaricando i servizi sociali di esercitare un effettivo monitoraggio sulle minori. Avverso tale pronuncia veniva proposto ricorso per Cassazione dall'appellante, articolato in cinque motivi, e veniva depositato controricorso dall'appellato.
La Suprema Corte, preliminarmente, dichiarava ammissibile il ricorso da intendersi promosso ex art. 111, comma 7, della Costituzione controvertendosi tra le parti in ordine alla modifica dell'affidamento delle figlie minorenni. La Cassazione riteneva prioritario affrontare il quinto motivo di ricorso recante la nullità del procedimento e del decreto impugnato per mancata partecipazione del PM che non risulta essere stato avvertito ex art. 70 c.p.c. Tale doglianza veniva rigettata per un duplice motivo: il decreto delle Corte d'Appello dava atto espressamente dell'avvenuto intervento del Procuratore Generale della Repubblica, precisando, peraltro, che l'obbligatorietà dell'intervento del Pubblico Ministero nelle cause in cui la sua partecipazione è imposta dalla legge, non richiede che un rappresentante di detto ufficio sia presente alle udienze ma è sufficiente che detto ufficio sia informato del processo per poter esercitare in esso i poteri attribuiti dall'ordinamento. Ancora, l'omessa partecipazione del PM al giudizio può essere fatta valere solo dalla parte pubblica, pertanto la ricorrente sarebbe comunque priva di legittimazione attiva. Il primo, il secondo, il terzo e quarto motivo, venivano affrontati dalla Cassazione congiuntamente in quanto chiaramente connessi tra di loro e considerati fondati.
I Giudici di Piazza Cavour ribadivano che nell'ipotesi di affido condiviso, anche nel caso in cui i genitori abbiano cessato il rapporto di convivenza, il grave conflitto tra gli stessi non giustifica di per sé la sua esclusione. La mera conflittualità, infatti, non preclude il ricorso al regime preferenziale dell'affidamento condiviso, ove si mantenga nei limiti di un tollerabile disagio per la prole, e non vada ad alterare ed a porre in serio pericolo l'equilibrio e lo sviluppo psicofisico dei figli. Ne consegue che il criterio fondamentale cui deve attenersi il giudice è costituito dall'esclusivo interesse morale e materiale della prole, il quale deve privilegiare la soluzione che appaia più idonea a ridurre al massimo i danni derivanti dalla disgregazione del nucleo familiare ed assicurare il migliore sviluppo della personalità del minore. La Suprema Corte rammentava, dunque, come vada assicurato il rispetto del principio della bigenitorialità, da intendersi quale presenza comune dei genitori nella vita del figlio idonea a garantirgli una stabile consuetudine di vita e salde relazioni affettive con entrambi. Il Collegio, affrontando il singolo caso, aveva ritenuto che la Corte di Appello, pur avendo riscontrato un'elevata conflittualità tra i genitori, si era sostanzialmente soffermata sulla valutazione del solo comportamento della ricorrente, assumendo che il dedotto suo stato di sofferenza morale e psicologica non avrebbe potuto giustificare l'affido condiviso, omettendo di considerare quale sarebbe potuto essere stata la ripercussione sull'assetto cognitivo delle minori di una brusca e duratura sottrazione delle stesse dalla relazione familiare con la madre e con la lacerazione delle corrispondenti consuetudini di vita. Il tutto, peraltro, ignorando nel processo decisionale di includere una valutazione del possibile impatto (positivo o negativo) della decisione sui minorenni. Nel caso in esame il provvedimento impugnato denotava una visione parziale dell'interesse del minore non affrontando in alcun modo la questione della sottrazione improvvisa delle due bambine nei confronti della madre, che fin a quel momento aveva significativamente contribuito alla loro crescita accudendole costantemente.
In conclusione, la Suprema Corte ha accolto il ricorso limitatamente ai primi quattro motivi, rigettando il quinto, ha cassato il decreto impugnato in relazione ai motivi accolti e ha rinviato la causa alla Corte d'Appello competente in diversa composizione per il corrispondente nuovo esame e per la regolamentazione delle spese.