Il diritto del lavoratore che usufruisce dei tre giorni mensili di permesso per assistere il familiare disabile a non essere trasferito ad altra sede di lavoro, senza il proprio consenso, sussiste anche se la persona assistita non si trova in condizione di handicap grave.
Deve essere respinta la tesi contraria per cui è necessario che la disabilità sia connotata da situazione di gravità affinché il lavoratore, che presta assistenza al familiare disabile, possa legittimamente opporsi al trasferimento della sede di lavoro.
La Cassazione ha confermato queste conclusioni (ordinanza n. 25836/2022, depositata lo scorso 1° settembre) in un giudizio relativo all’impugnazione del licenziamento per giusta causa irrogato a una lavoratrice che, disattendendo l’ordine datoriale di assumere servizio presso la sede aziendale di La Spezia, si era presentata a lavoro nella sede di Roma, invocando l’applicazione della norma (articolo 33, comma 5, della legge 104/1992) che impedisce il trasferimento del lavoratore “caregiver” in assenza del suo consenso.
Il comma 5 statuisce, invero, che la limitazione dello spazio di libertà datoriale rispetto al trasferimento della sede di lavoro interviene a beneficio dei dipendenti che usufruiscono dei tre giorni di permesso mensili per assistere «una persona con disabilità in situazioni di gravità».
La Suprema Corte, riprendendo un orientamento espresso con la sentenza 9201/2012, censura l’indirizzo che offre un’interpretazione strettamente letterale della norma e richiede, quale presupposto per l’operatività del divieto di trasferimento, che il familiare assistito versi in condizione di handicap grave. Al contrario, occorre operare una lettura costituzionalmente orientata della norma, ponendo in rilievo la funzione preminente di tutela della persona disabile, per concludere che il trasferimento del lavoratore richiede il previo consenso anche se la disabilità del familiare non è connotata da gravità.
L’interpretazione offerta dai Giudici di Piazza Cavour pone, tuttavia, dei limiti al divieto di trasferimento, perché in presenza di imprescindibili esigenze aziendali lo spostamento della sede di lavoro non può essere rifiutato.
La Suprema Corte rimarca questo aspetto e afferma che il divieto di trasferimento del lavoratore caregiver non si applica se viene provato dal datore che il mutamento della sede di lavoro deriva da «esigenze aziendali effettive ed urgenti, insuscettibili di essere altrimenti soddisfatte».
Il dato dirimente non è costituito, dunque, dalla presenza di una disabilità in forma grave, ma dalla necessità effettiva del familiare di ricevere assistenza. Nel bilanciamento dei contrapposti interessi - quello del datore di poter soddisfare le esigenze produttive sottese al trasferimento e quello del lavoratore di prestare assistenza al familiare - ciò che rileva non è se l’handicap sia (o meno) grave, bensì se sussista una effettiva necessità di assistenza. È sotto questo profilo che va valutato il diritto del lavoratore a opporsi al trasferimento della sede, che prevale sull’interesse dell’azienda a condizione che sia comprovata la insopprimibile necessità di assistenza familiare.
Applicando questi principi, nel caso oggetto dell’ordinanza la validità del licenziamento disciplinare è stata confermata, in quanto il familiare disabile non grave, all’epoca del trasferimento, non versava in uno stato di limitazione della propria autonomia che rendesse necessaria un’assistenza continuativa e globale.